Articolo
Antonino Cardillo
Due architetti delle antiche civiltà del mondo, romana ed indiana, condividono i loro pensieri sui riti di passaggio nell’architettura contemporanea. La storia convalida un nuovo vocabolario o è un semplice spettatore? Antonino Cardillo prende spunto dalla Villa Adriana (un complesso archeologico romano) mentre Suparna Bhalla mette in discussione la promessa di un’identità indiana.
Nella storia dell’uomo tanto più la visione di chi detiene il potere è intelligente, ambiziosa e sognante, quanto più l’architettura è capace di incidere creativamente sul tessuto della città, arricchendolo. Queste qualità, che sono anzitutto culturali, appaiono estranee all’Italia di oggi e vana è pertanto l’aspettativa di un’architettura ‘contemporanea’ romana. Premesso ciò il lettore potrebbe essere indotto in errore, e credere che la città e la sensibilità contemporanea siano due entità estranee e disgiunte, se non addirittura contrapposte. Ma la storia, si sa, è guidata dal caso, e questo capitolo mediocre del racconto, non dovrebbe distrarci dal capolavoro che l’ha preceduto. Ci appare in forma di paradosso, ma questo organismo complesso e contraddittorio chiamato Roma, seppur privo di grattacieli, curtain walls, pareti in cemento a faccia vista ed altri feticci della modernità, offre al lettore attento un racconto eccezionalmente affine al sentire contemporaneo.
Più di ogni altra città al Mondo, Roma offre al visitatore una lettura frammentata. Mostra se stessa attraverso una molteplicità di significati presentati in maniera disordinata e poco classica. I visitatori fruiscono la città tramite sequenze sempre inedite, poiché inedito è il percorso di ciascuno individuo, innescando così nella percezione di ognuno molteplici relazioni. Le diverse percezioni dei luoghi e degli episodi urbani in sequenza realizzano nella memoria, traslando la brillante intuizione di William MacDonald e John Plinto su Villa Adriana a Tivoli, “una reintegrazione di immagini a collage che rimandano alle prime composizioni cubiste di Picasso e Braque.”[1]
Nel 1978 in Collage City, Colin Rowe e Fred Koetter individuano nel metodo frammentario una via alternativa, pluralista e democratica alla progettazione contemporanea. Nella loro analisi le città antiche diventano il risultato di un incessante processo di frammentazione, collisione e contaminazione di idee eterogenee, progressivamente stratificate dalle diverse generazioni che si sono succedute nella città. Nel libro la Villa di Adriano, dai due autori descritta come una “Roma in miniatura, una nostalgica ed ecumenica immagine di quella mescolanza ibrida che rappresentava l’Impero”,[2] assurge a modello.
Erede di un’antica tradizione risalente ai parchi persiani e forse alle ville-giardino egizie, la Villa a Tivoli, costruita tra due valli su circa centoventi ettari di terreno, rappresenta un compendio complesso e straordinario delle differenti culture dell’Impero, ideato e costruito dall’imperatore Adriano durante gli anni del suo governo. Ostinato viaggiatore, durante il suo regno si recò da un capo all’altro dell’Impero, maturando una conoscenza diretta delle provincie di frontiera, come quelle del Reno, del Danubio, della Grecia, dell’Asia Minore e del vicino Oriente. Questa straordinaria e poliedrica attività di scoperta culturale trovò una magistrale sintesi nella sua Villa a Tivoli, la cui progressiva riscoperta in età moderna, ha influenzato in modo decisivo la storia dell’arte e dell’architettura occidentale.
Persino la recherche patiente di Le Corbusier è legata sin dalla sua formazione al sito adrianeo. Nell’autunno del 1911, a ventiquattro anni, durante il suo Voyage d’Orient visita Villa Adriana a Tivoli, raccogliendo impressioni, lezioni e suggestioni che, maturando nel tempo, arriveranno a connotare la stagione matura della sua ricerca artistica. Ancora William MacDonald e John Plinto, nel loro contributo su Villa Adriana, affermano giustamente che “gli storici dell’architettura moderna hanno sottovalutato il ruolo cruciale svolto da Villa Adriana nello stimolare la poetica di Le Corbusier”,[3] ed individuano un’affascinante affinità tra un edificio della Villa e le magiche correnti di luce delle tre cappelle della chiesa di Nôtre-Dame-du-Haute a Ronchamp: “Le Corbusier fece numerosi schizzi del triclinio scenografico, nei quali si rivela il fascino che esercitò su di lui l’illuminazione del prolungamento assiale. In uno di questi, protagonista è il drammatico contrasto tra il fascio di luce che illumina l’abside terminale e le pesanti ombre del corridoio a volta in primo piano; la didascalia indica che ad affascinarlo non era solo il gioco di luci ed ombre, ma anche l’atmosfera misteriosa che conseguentemente si creava. Sulla pagina a fronte, l’architetto tracciò uno schema analitico di quella colonna di luce verticale, cui fece riferimento quarant’anni più tardi nella progettazione della chiesa a Ronchamp, dove le cappelle laterali sono illuminate tramite fessure che si innalzano a raccogliere i raggi del sole per indirizzarli verso il basso, inondando di luce l’interno buio e cavernoso.”[4]
L’architettura esprime sempre la sua vera natura nella povertà di mezzi. L’architettura non è fatta dall’oro, dalle pietre preziose o dai tessuti pregiati; e non è neppure acciaio, cemento o laterizio; neppure gli sbalzi, i gusci, le piastre, le membrane o la grandi arcate sono architettura. L’essenza dell’architettura abita nel suo racconto, che struttura il tempo nello spazio: la grande architettura, che è anche la città, è come un romanzo senza fine, in cui la personale esperienza dell’attore protagonista, che è il fruitore, modifica continuamente il senso dell’opera nel tempo.
Nel 1972 in Learning from Las Vegas: the Forgotten Symbolism of Architectural Form,[5] scambiando ‘illusione’ per ‘allusione’, Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour paragonano la caotica "strip" di Las Vegas ad una piazza di Roma. Ma Roma è molto più di un assemblaggio di segni. È un labirinto che s’inerpica giù nella Storia, fatto sia di luoghi reali e che di luoghi percepiti. Talvolta la percezione diventa essa stessa Città ma la dimensione storica dei luoghi fa si che la confusione semantica non sia simulata come in Las Vegas, ma parla, a chi sa ascoltare, delle passioni, dei delitti, degli amori e dei tradimenti di tutti gli uomini che l’hanno vissuta e che hanno scritto e riscritto infinite volte sulle stesse pietre i loro sogni e le loro miserie. Questo non può accadere in Las Vegas, perché lì i segni sono illusori e rimandano a vite già vissute, surrogati di esistenza che illudono il visitatore di poter rivivere una vita non propria.
Probabilmente non esistono luoghi senza nomi e la memoria è più vera dello spazio fisico. Forse è più reale, e la realtà, dunque, non è solo spazio fisico. Ma la memoria della città storica, a differenza di quella "illusiva" di Las Vegas, è, dunque, anche manipolazione ed alterazione: forse la città è un gigantesco mazzo di carte, una serie corrotta e se la storia fosse lineare, chiara ed intellegibile, l’arte che vi è racchiusa, non avrebbe ragion d’essere. La bellezza è sempre bastarda e nella distorsione della realtà risiede, a volte, l’arte più profonda, più vera.
Roma è, dunque, fatta di luoghi originari e luoghi alterati, ma ci si perde nel tentativo di distinguere l’alterante dall’origine, che forse non c’è mai stata. Forse Roma è solo un immensa alterazione della memoria collettiva ed in questa decadente e perenne metamorfosi alberga il suo fascino, il suo essere regina ed al pari vittima del Tempo.
Teatro marittimo, Villa Adriana. Fotografia: Antonino Cardillo
Note
- ^ William L. MacDonald, John A. Pinto, Hadrian’s Villa and Its Legacy, Yale University Press, New Haven, 1995, pp. 323.
- ^ Colin Rowe, Fred Koetter, Collage City, Cambridge, 1978, p. 90
- ^ MacDonald-Pinto, op. cit., pp. 322.
- ^ MacDonald-Pinto, op. cit., pp. 321-322.
- ^ Robert Venturi, Denise Scott Brown, Steven Izenour, Learning from Las Vegas: the Forgotten Symbolism of Architectural Form, Cambridge, MIT Press, 1977, pp. 192