Conferenza
Antonino Cardillo
Di cosa parliamo quando parliamo di realtà? E di cosa parliamo quando parliamo di falso? Durante i miei studi universitari ho ricevuto un’educazione modernista. I libri di storia insegnavano cosa fosse giusto e cosa sbagliato. Sono stato principalmente formato con l’assunto del primato dell’architettura degli Stati Uniti d’America. In particolare Frank Lloyd Wright, che adoravo, e i migranti europei, soprattutto Mies van der Rohe e Walter Gropius. Venni così istruito all’idea che l’architettura italiana costruita tra le due guerre fosse stata un falso della storia. Qualche anno più tardi, durante gli anni in cui ho vissuto a Roma, cominciai a sentire un conflitto interiore. Mi accorgevo spesso che le cose studiate non corrispondevano a ciò che vedevano i miei occhi. Fu però un lungo e difficile processo quello che mi portò a porre in discussione la certezza della giustezza dell’architettura moderna occidentale. Così, lentamente compresi che la mia formazione poteva essere stata il risultato di una manipolazione.
Comincio con questo primo argomento della riscrittura della storia perché vorrei invitarvi a riflettere affinché, prima di discutere su media e di realtà falsificate, forse dovremmo discutere di storia, origine di tutte le manipolazioni. Ciò che sappiamo del passato è reso dagli storici. Non è ciò che è realmente accaduto. Non è la verità. Ogni storico sa bene sulla relatività delle fonti. Però quando sei giovane e ti avvicini a un libro è difficile evitare che quella lettura diventerà la tua idea di realtà.
Quindi, ancora una volta, di cosa parliamo quando parliamo di realtà? Se la realtà è una rappresentazione, come è possibile parlarne come fenomeno fisico? La realtà di una persona nata a Francoforte sul Meno sarà la stessa di qualcun’altra nata in India o in Siria? Credo che questo argomento sia importante soprattutto oggi, per la drammatica situazione politica del nostro presente. Ciò che pensiamo di sapere di questa presunta realtà, molto spesso si rivela essere una conseguenza del fenomeno del giornalismo. Dal momento che non possiamo sperimentare fisicamente il mondo nella sua interezza, nonostante noi moderni occidentali veniamo ancora cresciuti sotto questa falsa aspettativa, finiamo per credere a un’idea di realtà derivata dai libri di storia e dal giornalismo. Quindi, ciò che siamo abituati a definire realtà, non è la realtà stessa, ma una rappresentazione di informazioni che abbiamo acquisito da esperienze surrogate: libri, giornali, video e siti web. Una rappresentazione confusa e frammentata del mondo che è parte di una strategia informativa del potere dominante.
Oggi, trovo difficile parlare intorno al mio atto delle Sette Case per Nessuno. Forse esso ha a che fare con la mia personalità ma, ancora oggi, non ho una posizione chiara su ciò che ho fatto. Ho pensato molto a ciò che avrei detto in questa conferenza e vorrei dire adesso che vedo il mio atto come una cattiva risposta a una buona domanda: come è possibile influenzare il sistema chiuso del giornalismo contemporaneo così fortemente legato agli studi di architettura corporativi, che nei fatti non sono prominenti per i loro valori culturali ma piuttosto per i loro risultati aziendali? Vivendo un presente così controverso, sono stato impegnato a risolvere questo dilemma di come comunicare le mie idee senza esser parte di una società accademica, né di avere abbastanza soldi per auto commissionarmi opere di architettura. Così, quando in una fase iniziale dichiaravo ai giornalisti che le mie opere rappresentate da immagini generate al computer non erano state costruite, rimanevo sorpreso di apprendere che quei giornalisti non fossero interessati alle mie idee ma solo a una realtà costruita fisicamente.
Il secondo argomento di cui vorrei discutere è il concetto di professionalità. In questa era moderna che viviamo, l’architetto è considerato un professionista. Ma io mi sono sempre visto più come uno scrittore di storie che un tecnico praticante. Sono architetto non per produrre uno sfruttamento commerciale dell’architettura ma per scrivere delle storie. Sono sempre stato innamorato dell’architettura del passato. La città in cui sono nato, Trapani, è un’antica città. Il mio immaginario è stato influenzato da templi greci e da altre antichità. Inconsapevolmente, ho subito un’inconscia educazione estetica, che lentamente ha lasciato emergere un atteggiamento: quello di vedere l’architettura quale conseguenza dell’immaginazione. Ed anche se all'Università ho ricevuto un’educazione modernista, dopo gli studi, quando ho iniziato a creare architettura, ho sperimentato il problema di oggi di trovare dei clienti che potessero adattarsi a quest’idea di un’architettura dell’immaginazione. Sono così rimasto sorpreso di scoprire che i clienti di oggi vedono più l’architettura come un modo per risolvere i loro problemi pratici e non erano poi molto interessati alle mie storie. Così ho iniziato a progettare le Case Immaginate. La strategia mediatica, dopo, finì per diventare parte di un’opera di pianificazione poiché qualsiasi scrittore, dopotutto, ha come primo desiderio quello di raccontare il suo romanzo al mondo.
Il terzo argomento del mio discorso è sull’integrità del processo di creazione dell’opera di architettura. Al giorno d’oggi, gli studi di architettura convenzionali commissionano la produzione di immagini generate al computer dei propri progetti prodotte da società terze. Oppure, nel caso in cui le suddette immagini di rendering vengano prodotte all’interno del proprio studio, non sono perlopiù create dagli architetti principali. Così, attraverso quell’atto di creare delle immagini al computer dei miei stessi progetti, ho provato a reintegrare quest’artificiosa divisione di ruolo, la cosiddetta specializzazione nota conseguenza di quest’era industriale che ancora viviamo, che ha interrotto l’organico processo proprio di ogni autentica creazione. Ho costruito quelle immagini come un artigiano, provando a ricercare quel significante che sembra inevitabilmente perduto nel processo frammentato dell’architettura del presente.
Oggi però riconosco che il significante di quelle Case Immaginate era piuttosto confuso. Adesso ho un’idea diversa dell’architettura. Tuttavia la produzione di quelle case mi ha insegnato a colmare il divario tra l’idea e la sua rappresentazione. Qualche anno più tardi, quando ho costruito fisicamente a Roma la Casa della Polvere, avevo già fatto tesoro di quella esperienza. Il processo di produzione delle Sette Case per Nessuno mi aveva così insegnato a liberare la rappresentazione del progetto da quell’approccio documentario tipico della fotografia commerciale di oggi, riscoprendo la qualità mitopoietica della rappresentazione dell’architettura del passato.
Per concludere questo discorso vorrei collegare il primo argomento della storia e quest’ultimo del mito. Le mie immagini di architettura sono un tentativo di creare una mitologia che evochi un immaginario. Non ho mai considerato quello della realtà falsificata come un vero argomento di discussione. Fingere sulla verità di una storia è argomento da storici o giornalisti. Trovo però che i miti, le fiabe e le leggende siano più onesti. Contengono una qualità antropologica che sedimenta secoli di significati. Sono come delle storie private dalle informazioni, che rivelano un significante più profondo. Questo è l’argomento dimenticato dall’architettura di oggi. Cancellato da quell’ossessione tutta commerciale di accontentare i clienti. Giorno dopo giorno, sperimentiamo il paradosso di una società contenta di definire luoghi privi di ideali e sentimenti. L’architettura così non crea più spazi sacri e neppure edifici di civiltà. Al contrario, gli architetti inventano architetture per le banche. Io però vorrei suggerire che dovremmo rischiare di più, reintroducendo quella qualità letteraria propria dell’architettura del passato: qualsiasi realtà è scritta sulla sabbia, un’illusione che però neutralizza la vita di milioni di persone.
Museo Tedesco dell’Architettura, Francoforte sul Meno