Articolo
Antonino Cardillo
Secondo Cesare Brandi “L’Egitto non è un paese, è un fiume.”[1] E il fiume è un percorso che come una grande autostrada connette diversi punti geografici. L’acqua pertanto da separazione tra opposte rive diventa il luogo dello scambio e della comunicazione.
Annota Gustave Flaubert nel 1849: “L’acqua del Nilo … trascina con sé molta terra, mi sembra quasi affaticata per tutti i paesi che ha attraversato e per il continuo mormorare il lamento monotono di non so quale stanchezza di viaggio … da dove vengono questi flutti? Che cosa hanno visto? Questo fiume, proprio come l’Oceano, lascia che il pensiero ripercorra distanze quasi incalcolabili.”[2]
L’inizio di datazione del calendario gregoriano con la nascita di Gesù, ha creato nell’immaginario collettivo una cesura, confinando in una zona ‘altra’ – quasi un’altra storia – ,le civiltà vissute nei secoli precedenti. In quest’atto di imperio è leggibile un’intenzione di mettere in ombra ciò che è stato prima. Ma la numerazione degli anni è un fatto relativo ed approssimandosi alle civiltà antiche, occorrerebbe mettere in discussione questa cesura, presente anzitutto nelle nostre menti occidentali, meditando sul tempo ed il suo fluire che ignora discontinuità ed interruzioni.
L’Egitto faraonico rivela un passato complesso. Per quanto dilato nella durata dei suoi trenta secoli, si differenzia notevolmente, per luoghi ed epoche. Pertanto, è fuorviante pensare ad un’arte, una cultura ed una religione egiziana. Per quanto lento, il cambiamento appare costante. Più di duemila anni, ad esempio, separano la costruzione delle Piramidi di Giza dal Tempio di Iside sull’Isola di Philae.
Piramide di Khafre, Giza. Fotografia: Antonino Cardillo, 2005
Si può viaggiare in Egitto in vari modi: si può trovare rifugio in quell’Egitto ‘antico’ costruito dalle immagini e dalle storie romanzate dei documentari occidentali, che riempiendo le anse più oscure della storia lo trasfigurano in ciò che vorremmo sia stato. Un paese astratto, un’icona seducente ed idealizzata da consumare, che trova la sua massima sintesi commerciale nella Crociera sul Nilo. Un rito più volte celebrato dalla letteratura europea, che trae origine dalla fascinazione per la civiltà egiziana da parte dalla Francia napoleonica. Da allora artisti, poeti, intellettuali ed archeologi intraprendono un viaggio che assume valore di un itinerario già tracciato, nel quale riconoscere paesaggi noti alla memoria, perché già letti, già descritti.
Tuttavia, parafrasando ciò che è stato detto da Conrad a proposito di un altro fiume, “guardare una costa mentre scivola via lungo la nave è come meditare su di un enigma.”[3] È enigma perché, nonostante la distanza temporale ci separi da esso, l’Egitto antico ci appare vicino. Come in un gioco di specchi, ciò che noi chiamiamo in occidente ‘Modernità’ è anche l’esito di una rielaborazione, spesso inconscia, di questo straordinario serbatoio di visioni e contenuti che chiamiamo ‘Oriente’.
Sponda del Nilo dal battello, Assuan. Fotografia: Antonino Cardillo, 2005
La progressiva riscoperta ed assimilazione delle terre Orientali, dal Maghreb alla Persia, è processo attivo già nel Cinquecento, si pensi alla fascinazione del papa Sisto V per gli obelischi egizi che diventano cardini della nuova urbanistica di Roma, ma sarà la campagna militare di Napoleone a segnare la svolta decisiva. Tra Otto e Novecento i lussuosi viaggi in battello, organizzati dall’agenzia britannica Thomas Cook, diventarono d’obbligo per la borghesia del nord Europa. Il Death on the Nile di Agatha Christie,[4] ambientato negli anni Trenta del Novecento, offre una sintomatica traccia letteraria.
Ciascuno può arrivare in Egitto con le proprie certezze: fotografie e romanzi su piramidi e templi. Ci si può confinare nei recinti controllati dei siti archeologici ed ignorare la vita, che ci sfiora ed aggredisce: venditori insistenti – ‘mosche’ secondo Agatha Christie –, distese di edifici di cemento armato e mattoni, minareti con tubi fluorescenti, case in rovina.
Case sul Nilo, Nubia. Fotografia: Antonino Cardillo, 2005
Scrive Flaubert: “Ciò che amo dell’Oriente è questa grandezza che si ignora, e questa armonia di cose disparate. Mi ricordo un uomo che aveva al braccio sinistro un braccialetto d’argento, ed all’altro una vescica. Ecco l’Oriente vero è, inizialmente, poetico.”[5]
Ancora oggi, sul Nilo, è possibile intravedere questa enigmatica contraddizione. Sulle rive del Fiume si agita una umanità rurale, quasi dimentica del tempo e di ciò che noi chiamiamo ‘Modernità’. È evidente che tutto ciò non è scelto. Ma questa povertà di mezzi restituisce un paesaggio essenziale, incantato, a tratti pre-moderno.
L’Egitto di Flaubert è quello dell’Impero Ottomano ritratto con rapide annotazioni pre-impressionistiche, durante un viaggio intrapreso con il suo amico fotografo Maxime Du Camp, nel novembre 1849 e durato otto mesi. Sensazioni visive sostituiscono pensieri, riflessioni e le immagini sognate prima del viaggio: “Una canga a vela, passa in basso: ecco il vero Oriente, impressione di malinconia e sonnolenza; si intuisce qualcosa d’immenso ed inesorabile in cui siete perduti.”[6]
La realtà infrange le certezze acquisite sui libri prima del viaggio. Il Fiume diviene metafora del trascorre del tempo, della vita di ciascuno, della storia. La vita quotidiana deposita inesorabile i suoi sedimenti sulle sue rive, sporcando palazzi e templi, mettendo in crisi la certezza di una perpetua memoria.
Questa aspirazione all’immanenza colpisce il viaggiatore. Lascia attoniti l’ossessione degli abitanti di questi luoghi di fermare il tempo, registrare la memoria, proiettando sulla pietra immagini di una realtà vissuta o desiderata (aldilà). Che gli egiziani ne fossero consapevoli o meno, qui nasce senza dubbio la storia. Ma nasce anche il suo opposto, ossia la possibilità di cambiare la verità riscrivendo la storia.
Nella tomba di Mose, a Saqquara, un’iscrizione fa riferimento al cinquantanovesimo anno di regno di Haremhab. Nella realtà dei fatti accaduti, ricostruita dall’archeologia, il faraone regnò tra 1333 ed il 1306 a.C., per soli ventisei anni. Si tratta di uno dei più antichi esempi di riscrittura della storia: estendendo a ritroso la durata del suo regno, Haremhab cancellava dalla storia dell’Egitto i quattro faraoni precedenti – Akhenaton, Semenkhkara, Tutankhamon ed Ai – perché ritenuti eretici.
La religione di questi luoghi era mutevole ed inclusiva. I nuovi elementi cultuali, emersi nel tempo, quasi mai cancellavano quegli antichi, ma si sovrapponevano, intessendo una rielaborazione mitologica tesa a dare continuità e relazione alle diverse entità: culti arcaici animali, culti locali, geni elementari, e le divinità cosmiche elaborate dalle speculazioni intellettuali dei sacerdoti. Durante la XVIII dinastia, nel periodo del Nuovo Regno, il tempio di Karnak ed il suo culto di Amūn, conobbe la sua massima influenza sulla terra d’Egitto. Continue ingerenze, sostenute dal potere economico e dalla raggiunta supremazia religiosa sugli altri culti, rappresentavano una grave minaccia alla separazione tra potere religioso e civile.
Tra il 1364 ed il 1347 a.C., il faraone Amenolfi IV, rinominatosi Akhenaton – colui che serve all’Aton – riuscì ad introdurre per alcuni decenni, un’inedita quanto traumatica forma di monoteismo. In pochi anni, l’Aton – immagine astratta di un disco solare da cui dipartivano raggi verso il basso terminanti con piccole mani – sostituì per intero l’antico e multiforme pantheon di divinità antropomorfe. Si riconosceva così in modo diretto e senza intercessioni il profondo legame dell’esistenza umana con il percorso celeste del Sole: “Ogni occhio ti vede di fronte a sé, perché tu sei il Disco del giorno; ma quando tu tramonti e tutti gli occhi per i quali hai creato la vista non possono vedere te e quello che tu hai creato, tu sei ancora nel mio cuore.”[7] L’assenza di mitologie, infine, caratterizzava la nuova religione.
Sponda del Nilo dal battello. Fotografia: Antonino Cardillo, 2005
La scoperta e lo studio sistematico della religione di Akhenaton è recente e risale alla fine dell’Ottocento. L’eresia amarniana – cosiddetta per il nome della nuova città capitale del regno Akhet-Aton, poi rinominata in arabo Tell el-Amarna – esercita ancora oggi una fascino profondo. Le fonti scritte sono scarse a causa della damnatio memoriae promulgata dai faraoni successivi che, nell’intenzione di restaurare gli antichi culti religiosi, cancellarono quanto più possibile dei segni lasciati dalla religione eretica. L’arte di quel periodo, tuttavia, ci parla inequivocabile di una rivoluzione artistica profondamente ispirata dal faraone Akhenaton: introspezione, espressione dei sentimenti, trasfigurazione della realtà fisica, esaltazione delle componenti spirituali ed intellettuali assieme ad una visione più relativa dell’essere umano, sono alcune delle istanze di questo periodo. Ciò nonostante, per il popolo l’Aton era un dio estraneo e razionale, che durante la vita era luce e calore, ma abbandonava l’uomo dopo la morte.
Le tombe egizie ci commuovono per la loro smisurata fede riposta nella scrittura e nell’immagine al fine di perpetuare, con mezzi diversi, il ricordo dei propri cari, dall’uomo più umile ai faraoni. L’idea di conservare il defunto in un ambiente ricercato, presente sin dalle prime dinastie, era un tempo privilegio del solo faraone. Straordinario esempio ne è l’antica piramide di Zoser (2668–2649 a.C.) costruita a gradoni dal capomastro Imhotep, forse il primo grande architetto di cui la storia conservi memoria. Tuttavia è verso la fine del Medio Regno che inizia il processo di democratizzazione dei defunti con l’introduzione del culto osiriaco.
Osiride era un dio buono che sulla terra aveva conosciuto il tradimento, la morte e la miseria del corpo fisico. Salvato e riportato in vita dall’amore della sposa e sorella Iside, dava agli uomini una speranza di vita eterna. Era una leggenda umanissima che offriva al popolo la speranza in un aldilà, immagine speculare del mondo dei vivi sulla terra.
Tempio funerario di Hatshepsut. Fotografia: Antonino Cardillo, 2005
A Tebe, nella Valle dei Re e delle Regine, le tombe raccontano vite antiche. Come libri scavati nella terra, costruiscono sequenze articolate di spazi ipogei i cui muri diventano pagine. Lunghi impaginati, straordinari impaginati, dove la scrittura si confonde con le figure ed il percorso dello spazio identifica la struttura del racconto, realizzando un’inedita identità tra narrazione sulle pareti e sequenza degli spazi: ogni ‘stanza’ è come il capitolo di un libro. Racconto e spazio pertanto coincidono e l’uno dà all’altro la ragion d’essere, realizzando probabilmente la più antica sintesi artistica tra pittura e architettura.
Queste epoche remote ci parlano di quanto siano relative le cose dell’uomo. Templi e tombe ci raccontano dell’amore di uomini per divinità oggi dimenticate, ci avvertono di come persino le religioni siano fenomeni mutevoli, parabole temporali, destinate a passare e sfiorire nel tempo, come la vita degli uomini.
Note
- ^ Cesare Brandi, Verde Nilo, Editori Riuniti, Roma, 2001. Cit. in Egitto, Turisanda, 2005.
- ^ Gustave Flaubert, Voyage en Égypte, cur. Pierre-Marc de Biasi, Grasset, Parigi, 1991. ed. it. Ibis, Como-Pavia, 1991, p. 36.
- ^ Joseph Conrad, “Heart of Darkness”, Blackwood’s Magazine, Edimburgo, feb. 1899. ed. it. Einaudi, Torino, 1989, p. 16. Cit. in Egitto, Turisanda, 2005.
- ^ Agatha Christie, Death On the Nile, Collins Crime Club, Londra, 1 Nov. 1937.
- ^ Gustave Flaubert, Correspondance, Gallimard-La Pléiade, Parigi, 1973, b. II, p. 283.
- ^ Gustave Flaubert, Op. Cit., 1991, p. 63.
- ^ Anonimo, “Inno dell’Aton nella tomba di Ay”. Cit. in Franco Cimmino, Akhenaton e Nefertiti. Storia dell’Eresia Amarniana, Bompiani, Bologna, 2002, p. 215.