Manifesto
Antonino Cardillo
Fulcrum è stata una pubblicazione (e talvolta un collettivo di architettura) che ha stampato cento numeri settimanali dal 2011 al 2014. Dedicato al “perseguimento dell’architettura del terzo millennio”, Fulcrum rimane la pubblicazione studentesca sull’architettura più letta al mondo.
Tanto tempo fa, l’umanità celebrava il mistero della creazione costruendo grandi case per esseri invisibili chiamati dei. L’architettura trasfigurava alberi e pietre in qualcosa di grandioso e comunicativo. Era linguaggio universale, come la musica, e nelle sue trame si stratificavano tradizioni antichissime. Oggi l’architettura appare come un prodotto generato dalle multinazionali del design. Il nostro presente sembra avvinto in un ciclo: l’ossessione per la novità inibisce lo studio e la memoria breve neutralizza la nostra capacità critica, riducendo il passato a mercimonio, supermercato di ‘cose’ indistinte e intercambiabili. L’attuale proliferazione di icone neo-moderniste difatti nasconde questa sadica manipolazione: idee, passioni, lotte civili e ideali vengono costantemente saccheggiati e abusati. I significati originari sono alterati, riscritti o cancellati. Il passato diventa innocuo; immagine, maschera grottesca che celebra i consumi.
Il passato ci racconta delle storie tra gli uomini. L’architettura ci permette di conoscere noi stessi attraverso gli altri. Quando entità avverse si scontrano e iniziano ad amarsi, nascono nuovi linguaggi. L’architettura più fertile nasce dall’amore che, in definitiva, è sempre trasformazione, incontro sensuale tra le differenze. Così io intendo la mia architettura come un viaggio attraverso luoghi, un imparare dalle diversità. Io vedo l’architettura come un incontro di frammenti. Dell’architettura, quindi, m’interessa il ‘già detto’ o il ‘già visto’. Questo è un processo sincretico, dove elementi distanti, e in apparenza incongrui, trovano un’imprevista unità.
Attraverso l’architettura, provo a dare voce ai racconti dei passati interrotti, interrotti dalla ‘Storia’, che è il discorso dei potenti. Il discorso del potere si rivela anche nella struttura degli odierni studi di architettura: corporativismo, firme, marketing, produttività, profitto. Le aziende dell’architettura contemporanea sembrano affette da megalomania. Competono per fatturare la costruzione più grossa; ma la costruzione più grossa, per essere prodotta, richiede una grossa azienda. Ed una grossa azienda richiede centinaia di lavoratori: così, finiscono per costruire un ambiente gerarchico, deprivato di sentimenti. Lo stile di vita che conduci influenza il lavoro che fai. E quando il treno parte nessuna fermata è consentita perché, alla fine del mese, le spese incombono.
Io lavoro solo. Su una panchina ai bordi di una antica valle; aspettando il tempo, nelle strade. Oppure altrove, in un parco, ascoltando nella tarda notte il mormorio delle acque di una fontana; cercando sentimenti. Cercando i luoghi dove l’architettura giace addormentata. L’architettura è un’idea e le idee sono tarde; ti aspettano in un pomeriggio pigro e assolato, vagabonde e impreviste, da qualche parte. Internet rende l’ufficio fisico datato. Il mio ufficio abita un ordinatore portatile e io disegno piccoli edifici. Le opere di architettura più sovversive sono sempre piccole, perché la piccola scala rende liberi. Un committente saggio è molto più importante di una disponibilità di spesa senza fine.
L’architettura è un atto critico sulla realtà ed, allo stesso tempo, interpretazione del passato. L’architettura non è, non può e non deve essere una ‘firma’. Delegare il processo creativo è sempre un fallimento. Senza esercizio di critica, senza prese di posizione, senza conflitti – che sono soprattutto interiori – non c’è creazione. Ma la critica sembra in via di estinzione e l’architettura regredisce a intrattenimento. Così l’architettura contemporanea celebra il potere e diventa essa stessa potere. Ed anche se in apparenza opposti, potere e intrattenimento sono parte della stessa strategia che distrae le persone dai sentimenti della vita.
Un edificio è grande quando i suoi spazi sono eloquenti a un punto tale da sopravvivere alle funzioni per cui l’edificio stesso è stato originato. L’architettura è tale solo se riesce ad andare oltre i problemi transitori e comunica valori aldilà del quotidiano. L’architettura è oltre la funzione, che è solo il pretesto casuale che le dona nascita. In definitiva, l’essenza dell’architettura è nel racconto che custodisce, che struttura il tempo nello spazio: la grande architettura, che è anche città, è come un racconto senza fine, in cui l’interpretazione dell’attore protagonista, che è il fruitore, modifica il senso dell’opera nel tempo. Al di fuori di questa dimensione umana, l’architettura è destinata all’obsolescenza tecnologica e a un precoce invecchiamento.
Fulcrum, no. 77